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Cinquant’anni di indipendenza

Qualche riflessione su una promessa non mantenuta

 

Bujumbura, 6 marzo 2012

Padre Gabriele FerrariIl prossimo 1 luglio 2012 il Burundi celebrerà cinquant’anni dalla sua indipendenza, cinquant’anni di alti e bassi, di successi e di sconfitte di questo Paese che si trova all’equatore nel cuore dell’Africa. Va detto subito, dopo cinquant’anni d’indipendenza, il Paese indipendente non è lo è ancora del tutto, se non di nome. Oggi più che mai il Burundi dipende dall’aiuto che viene dall’estero, dai cosiddetti “bailleurs de fonds”, che non sono proprio dei benefattori, persone o enti che promettono, ma danno solo quando sono sicuri di non perderci. Il Paese vive per ora di interventi occasionali, che non sono mai disinteressati. Fa impressione leggere lungo le strade, sui recinti dei cantieri o davanti a una scuola cartelli che ricordano che si tratta di un “dono” della cooperazione belga, del governo del Giappone, dell’Unione Europea e, da qualche tempo, sempre più spesso, della Cina. Questo è un segno che il Paese non cresce, perché non riesce ad avere una sua politica di sviluppo, e un suo programma di crescita. La città di Bujumbura in questi anni è cresciuta moltissimo, si vedono delle costruzioni nuove e avveniristiche, dei palazzi di vetro, delle costruzioni di stile ultramoderno. Il settore delle costruzioni è forse l’unico settore in cui si vede dello sviluppo, ma si tratta di costruzioni che raramente servono al Paese, sono case private o costruzioni che servono come uffici per gli organismi internazionali che si trovano qui in questo Paese che per la sua posizione è diventata una plaque tournante della politica dell’Africa centrale e orientale, ma che non riesce a decollare in proprio. La sua recente adesione alla Comunità Economica dell’Africa Orientale (CECAO) potrebbe essere una fonte di crescita. Eppure questo Paese continua ad essere uno degli ultimi nella lista dei Paesi africani. Il livello del benessere non è aumentato: i pochi ricchi sono diventati ancora più ricchi, ma il numero dei poveri si è esteso. Per questo la prossima celebrazione dei cinquant’anni dell’indipendenza è guardata con un misto di speranza e di molto timore, un’impossibile palingenesi, da tutti sognata ma del tutto irreale.

L’attuale Presidente della Repubblica, Pierre Nkurunziza, non si stanca di dire che il cinquantesimo dell’indipendenza sarà una data storica, un momento di crescita del Paese; per il Cinquantesimo, ripete, si realizzeranno alcune infrastrutture, sempre sognate ma mai realizzate, nel campo delle comunicazioni, dell’industria e del commercio. Qualche mese fa si è azzardato a fare una promessa molto impegnativa, che cioè per il 2020 il Burundi non sarà più considerato un paese povero. In queste occasioni le promesse si sprecano, ma esse attendono di essere adempiute. Per ora il Burundi che guarda fuori delle sue frontiere e attende di essere aiutato senza riuscire a programmare autonomamente il suo futuro. La ragione di questa dipendenza dall’estero è legata alla sua storia oltre che alle caratteristiche socio-culturali del Paese. In realtà il Burundi è ancora intrappolato nei suoi problemi etnici e si trascina ancora dietro quasi tutti i problemi che ha ereditato al momento della sua indipendenza dal Belgio. La storia di questi cinquant’anni è piena di guerre, di tentativi di colpo di stato e di susseguenti repressioni che non solo hanno consumato molte energie umane e risorse materiali, ma hanno anche lasciato il Paese in una condizione che è forse peggiore di come era al momento dell’indipendenza. L’ultima guerra che ha insanguinato il Paese dal 1993 al 2005 è ufficialmente finita, ma le sue conseguenze si fanno ancora sentire e mantengono questo Paese agli ultimi posti della graduatoria mondiale dei paesi in via di sviluppo. Eppure il Burundi è un Paese che, se non potrà mai essere ricco, potrebbe tuttavia vivere e sopravvivere bene. Se in questi cinquant’anni invece di alimentare gli odi interetnici si fossero unite le forze vive di questa terra per dare al Paese quelle infrastrutture politiche, sociali e materiali di cui ha bisogno un paese che vuol crescere, esso potrebbe essere ora fuori dell’emergenza e camminare insieme agli altri paesi di questa regione sulla strada di uno sviluppo durevole. La sua posizione, infatti, consentirebbe al Burundi di trarre vantaggio dalla ricchezza e dallo sviluppo degli altri paesi della Comunità Economica dell’Africa Orientale di cui fa parte da qualche tempo. I traffici commerciali passano di qui ed è sufficiente percorrere l’asse stradale che dalla capitale Bujumbura dirama verso est o verso sud per rendersi conto di quanto commercio passa sulle strade di questo paese. Ma quanto beneficio ne trae il Burundi? Cosi pure l’agricoltura potrebbe trovare in questo paese molte possibilità legate al suo clima temperato, anche se equatoriale, e alla fertilità di questa terra dove basta seminare per raccogliere con abbondanza e anche all’operosità della popolazione. Ma basta un ritardo nelle piogge che la carestia si fa sentire e con essa le molte miserie ad essa collegate. Non parliamo dell’amministrazione e della buona gouvernance… Basterebbe che questo Paese fosse amministrato con un po’ di prudenza e di visione di futuro, invece il governo in questi cinquant’anni è sempre stato ostaggio dei politicanti e delle lobby etniche e regionali che l’hanno usato e abusato per affermare se stesse. La guerra poi ha devastato e disboscato il Paese facendone cambiare il clima e sovvertendo l’ordine delle stagioni da cui sono venute le recenti e ricorrenti carestie che hanno affamato le popolazioni rurali e, di riflesso, l’intero paese.

Basterebbe poco per superare questa situazione. In questi pochi anni di pace a partire dal 2005 la popolazione si è rimessa al lavoro, la terra ha fatto crescere di nuovo la vegetazione che era stata distrutta, si sono ricostruite molte case danneggiate dalla guerra e se ne sono costruite molte di nuove, nuovi villaggi sono nati nelle periferie urbane, le scuole sono state riaperte e moltiplicate. Tutto sta a dimostrare che quando c’è la pace tutto è facilitato e tutto riprende. Ma c’è ancora un ma. Bisognerebbe che il governo si prefiggesse di promuovere il bene comune, di tutti cioè, e non solo di una parte, un governo che vuole il bene del Paese e si decide ad uscire non solo dalle trappole del regionalismo, ma anche da quelle del partitismo in nome di una democrazia che tenga pur conto della realtà africana ma che sia una vera democrazia che coinvolge la popolazione nel governo del Paese. C’è anche da sperare che non avvenga qui quello che sta arrivando in altri paesi dell’Africa, che cioè un presidente della repubblica debba essere continuamente rieletto. Nel 2010 al momento delle seconde elezioni (le prime si erano svolte cinque anni prima nel 2005), il Presidente della repubblica in carica è stato rieletto, perché i partiti e i candidati degli altri partiti si sono praticamente esclusi dall’elezione. Ora egli si trova padrone dalla situazione, ma di fatto lo è “per modo di dire” perché sa di non essere l’espressione della volontà di tutta la popolazione ma solo dal suo partito. Le benemerenze che aveva conquistato, guidando la liberazione del suo popolo dall’elite politica che l’aveva condotto alla guerra, stanno oggi sfumando. E anche se si fa un continuo parlare di democrazia, di democrazia in Burundi se ne vede poca o nulla. C’è invece molta demagogia o populismo che nasconde la paura di perdere il potere. Ma neppure l’opposizione è esente da colpa, perché si rivela incapace di essere lo stimolo che spinga il governo in carica a cercare il vero benessere del Paese, mentre si limita a cercare l’occasione di vendicarsi e di sfruttare, a sua volta, le magre possibilità del Paese. Le cicatrici della guerra civile, che ha insanguinato il Paese per oltre dieci anni, sono ancora visibili e, qua e là, sono anche aperte. La pace è solo apparente, perché non passa giorno che non si senta dire di persone scomparse o incarcerate per aver avuto il coraggio di denunciare qualche ingiustizia.

In un clima come questo non è facile far venire o ritornare i bailleurs de fonds e le molte promesse raccolte finora… restano in lista di attesa. L’insicurezza finanziaria ed economica che affligge oggi le economie del mondo occidentale si fanno doppiamente sentire qui. E questo fatto insieme con la corruzione che alligna a tutti i livelli, brucia le speranze di una buona gouvernance che consentirebbe di aprire un po’ gli orizzonti. Le entrate dell’amministrazione statale si stanno riducendo e la pur necessaria politica fiscale del Governo scontenta la gente e carica di balzelli perfino il turismo da cui il Paese potrebbe trarre un facile profitto: il visto turistico di due mesi costa oggi 140 euro e quello di un mese 70 dollari. Mandare a scuola un figlio è una spesa al di là delle possibilità di molte famiglie. E quando si tratta di andare dal medico… è meglio sperare in un miracolo. Molta gente che va all’ospedale è costretta poi a restarci finché non paga il conto finale che è sempre molto alto e al di là delle possibilità di una comune famiglia. Mai come oggi il Governo ha imposto tasse e imposte su tutto e ogni giorno se ne scoprono di nuove. Evidentemente si sta grattando il fondo del paiolo, ma la gente non ne può più e ci si domanda per quanto tempo saprà ancora pazientare. I prezzi dei carburanti e delle materie prime che vengono dall’estero sono ormai alle stelle. Qui la benzina non costa come in Italia, ma il suo prezzo è del tutto proibitivo in rapporto ai salari di questo Paese. Da pochi mesi è stato alzato il costo dell’acqua e della luce, mandando in fumo i piccoli guadagni della gente delle città e dei centri abitati, e già si parla di raddoppiare questi stessi costi. I sindacati hanno proclamato uno sciopero generale che è stato un flop, anche se qualcuno già pensava ad un’edizione locale della “primavera araba”: evidentemente il Burundi non è né l’Egitto né la Tunisia!

Davanti a questa situazione che cosa resta da fare? Che cosa possono fare i pochi volontari che ancora sono qui insieme ai missionari? Ad occhio umano la cosa più saggia sarebbe far le valige e andarsene a casa, cosa che per la verità hanno già fatto molti volontari e cooperanti stranieri come del resto molti investitori. Ma noi missionari rimaniamo. Restiamo qui per sostenere la speranza di questa gente che soffre e che è vittima di una cattiva politica interna oltre che di una cattiva politica di cooperazione intrenazionale. Restiamo e continuiamo il nostro lavoro di assistenza e di promozione umana, anche se siamo convinti che non cambieremo questa situazione e che per tirar fuori dal pantano politico questo Paese ci vuol ben altro che la nostra buona volontà e le nostre risorse limitate. Restiamo, confidando sull’aiuto di chi ci sostiene, perché vogliamo essere vicini e formare cristianamente e civilmente coloro che saranno chiamati domani a prendersi cura del proprio paese. L’impegno per la formazione umana e cristiana, per la scuola, per lo sviluppo, per una sanità offerta ai poveri, l’assistenza agli orfani e ai meno favoriti della società rimangono gli impegni essenziali da onorare e da promuovere. Restiamo qui perché siamo convinti che Gesù Cristo non abbandonerebbe questi poveri alla loro sorte e perché crediamo che le speranze, nate cinquant’anni fa al momento dell’indipendenza, non sono ancora spente e che devono invece essere alimentate. Restiamo qui soprattutto perché crediamo che il Vangelo e la fede cristiana sono elementi decisivi per l’autentica promozione della persona e della società.

Gabriele Ferrari s.x.