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A cura di Padre Gabriele Ferrari

 

Il contesto storico sociale in breve

Il prossimo 1 luglio 2012 il Burundi celebrerà cinquant’anni dalla sua indipendenza. Sono stati cinquant'anni di alti e bassi, di successi e di sconfitte di questo Paese che si trova all’equatore nel cuore dell’Africa. A cinquant’anni dalla sua indipendenza il Paese non ha ancora pienamente la sua indipendenza. Oggi dipende più che mai dall’aiuto che viene dall’estero. Dappertutto si vedono delle scritte che dicono che questo è “dono” della cooperazione belga, del governo del Giappone, dell’Unione Europea e sempre più spesso della Cina. Questo è il segno che il Paese non cresce, perché non riesce ad avere una sua politica una sua iniziativa interna di crescita e di sviluppo. In realtà il Burundi è ancora bloccato nei suoi problemi e si trascina dietro quasi tutti i problemi che ha ereditato al momento della sua indipendenza dal Belgio. Oggi si guarda a questa celebrazione con un misto di speranza e di timore come se su questa data pendesse una serie di promesse che non si sono mai realizzate. L’attuale Presidente della repubblica non si stanca di dire che il cinquantesimo dell’indipendenza deve segnare una data storica, un punto di crescita del Paese. E promette che in occasione del Cinquantesimo si rilanceranno una serie di infrastrutture di base che finora non si è riusciti ad offrire nel campo delle comunicazioni, dell’industria e del commercio.

In realtà questi cinquant’anni sono passati tra guerre, insurrezioni e repressioni che hanno non solo consumato molte energie umane e risorse materiali, ma che hanno anche lasciato il Paese in una condizione che è forse peggiore di come era al momento dell’indipendenza. L’ultima guerra che ha insanguinato il Paese dal 1993 al 2005 è finita, ma le sue conseguenze si fanno ancora sentire e mantengono questo Paese agli ultimi posti della graduatoria mondiale dei paesi sviluppati. Eppure è un Paese in cui si potrebbe vivere e sopravvivere bene. Se invece di alimentare gli odi interetnici si fossero unite le forze vive di questa terra per dare al Paese quelle infrastrutture politiche e sociali e anche materiali di cui ha bisogno un paese che vuol crescere, esso potrebbe essere ora fuori dell’emergenza e camminare insieme agli altri paesi di questa regione sulla strada di uno sviluppo durevole. La sua posizione, infatti, consentirebbe al Burundi di trarre vantaggio dalla ricchezza e dallo sviluppo degli altri paesi della Comunità economica dell’Africa Orientale di cui fa parte da qualche anno. I traffici commerciali passano di qui ed è sufficiente percorrere l’asse stradale che dalla capitale Bujumbura va verso est o verso sud per rendersi conto di quanto commercio passa per questo paese. Cosi pure l’agricoltura potrebbe trovare in questo paese molte possibilità legate al suo clima temperato anche se equatoriale e alla fertilità di questa terra dove basta seminare per raccogliere con abbondanza e anche all’operosità della popolazione.

Basterebbe che questo Paese fosse amministrato con un po’ di prudenza e di visione di futuro. Invece il governo è sempre stato ostaggio della politica o meglio delle lobby etniche e regionali che l’hanno usato e abusato per affermare la supremazia della propria etnia o del proprio partito. La guerra poi lo ha devastato e disboscato facendogli cambiare il clima e sovvertendo l’ordine delle stagioni da cui sono venute le recenti e ricorrenti carestie che hanno affamato molte popolazioni rurali. Basterebbe poco per superare questa situazione. In questi pochi anni di pace a partire dal 2005 la popolazione si è rimessa al lavoro, la terra ha fatto crescere di nuovo la vegetazione che era stata distrutta, si sono ricostruite molte case danneggiate dalla guerra e se ne sono costruite molte di nuove, nuovi villaggi sono nati nelle periferie urbane, le scuole sono state riaperte e moltiplicate. Tutto sta a dimostrare che quando c’è la pace tutto è facilitato e tutto riprende.

Ma c’è ancora un ma. Bisogna che il governo sia un governo che si propone il bene comune, di tutti cioè e non solo di un partito, un governo che vuole il bene del Paese e si decide ad uscire dalle trappole del regionalismo o del partitismo politico per favorire una democrazia che tenga pur conto della realtà africana ma che sia una vera democrazia che coinvolge la popolazione nel governo del Paese. Anche qui, come in altri paesi dell’Africa, sta entrando l’idea che un Presidente della repubblica debba essere … eternamente al potere. Nel 2010 al momento delle seconde elezioni (le prime si erano svolte cinque anni prima nel 2005), il Presidente della Repubblica in carica ha brigato per essere rieletto, mettendo praticamente fuori gioco gli altri partiti politici e i loro rispettivi candidati, che sono pure responsabili di quest’occasione perduta. Ora il Presidente della Repubblica si trova padrone della situazione, ma di fatto è padrone per modo di dire perché sa di non essere l’espressione della volontà di tutta la popolazione ma solo del suo partito. Le benemerenze che aveva conquistato, guidando la liberazione del suo popolo dall’elite politica che l’aveva condotto alla guerra, oggi le ha perdute e non può più dire di essere democraticamente eletto. Anche se è un continuo parlare di democrazia, di democrazia qui ce n’è poca o nulla. C’è invece molta demagogia e molto populismo che nascondono solo la paura di perdere il potere. Da parte dell’opposizione poi non c’è nulla che assomigli ad uno stimolo per spingere il governo in carica a cercare il vero benessere del Paese. Tutti i gruppi dell’opposizione fanno capire che nient’altro cercano se non l’occasione di vendicarsi e di sfruttare, a loro volta, le magre possibilità del Paese.

Le cicatrici della guerra civile, che ha insanguinato il Paese per oltre dieci anni, sono ancora visibili e, qua e là, sono anche aperte. La pace è solo apparente, perché non c’è giorno in cui non si senta dire che delle persone dell’opposizione sono scomparse o che chi ha il coraggio di parlare sia stato messo in prigione. In questo clima non è facile che ritornino gli investimenti esteri e le molte promesse raccolte finora sono … in lista di attesa. L’insicurezza finanziaria ed economica che affligge oggi le economie del mondo occidentale si fanno doppiamente sentire qui. E questo fatto insieme con la corruzione che alligna a tutti i livelli, brucia le speranze di una buona governance che permetterebbe di aprire un po’ gli orizzonti. Le entrate dell’amministrazione statale si stanno riducendo e la politica fiscale del Governo scontenta la gente. Mai come oggi il Governo ha imposto tasse e imposte su tutto, ogni giorno se ne scopre una di nuove … Si sta grattando il fondo del paiolo, ma la gente non ne può più e ci si domanda per quanto tempo ancora saprà pazientare. I prezzi dei carburanti e delle materie prime che vengono dall’estero sono ormai alle stelle. Qui la benzina costa come in Italia … Da pochi mesi è stato alzato il costo dell’acqua e della luce, mandando in fumo i piccoli guadagni della gente delle città e dei centri abitati, e già si parla di raddoppiare questi stessi costi. La gente non sa più che fare. Mandare a scuola un figlio è una spesa che oggi è al di là delle possibilità di molte famiglie. E quando si tratta di andare dal medico … è meglio sperare in qualche miracolo. Molta gente che va all’ospedale è costretta poi a restarci finché non paga il conto finale che è sempre molto alto e al di là delle possibilità di una comune famiglia. La malaria e la TBC oggi mietono – incredibilmente – vittime come cinquant’anni fa, senza dire dell’AIDS che è una piaga di cui si vorrebbe ignorare la presenza, ma che falcia molte vite umane e toglie forze vive alla nazione e al suo sviluppo.

Davanti a questa situazione che cosa resta da fare? Che cosa possono fare i pochi volontari che ancora sono qui insieme ai missionari? Ad occhio umano la cosa più saggia sarebbe far le valige e andarsene a casa, cosa che per la verità hanno già fatto molti volontari e molti investitori stranieri. Ma noi missionari rimaniamo. Restiamo qui per sostenere la speranza di questa gente che soffre e che è vittima di una cattiva politica interna ed internazionale (quindi anche di una cattiva politica di cooperazione da parte nostra). Restiamo e continuiamo il nostro lavoro di assistenza e di promozione umana, anche se siamo convinti che non cambieremo questa situazione e che per tirar fuori dal pantano politico questo Paese ci vuol ben altro che la nostra buona volontà e le nostre risorse limitate. Restiamo, confidando sull’aiuto di tante persone che  ci sostengono, perché vogliamo essere vicini e formare cristianamente e civilmente coloro che saranno chiamati domani a prendersi cura del proprio paese. L’impegno per la scuola, l’impegno per lo sviluppo, per una sanità offerta ai poveri, l’assistenza gli orfani e ai meno favoriti della società rimangono gli impegni essenziali da promuovere e da onorare. Restiamo perché siamo convinti che Gesù Cristo non abbandonerebbe questi poveri alla loro sorte e perché crediamo che le speranze, nate cinquant’anni fa, non sono ancora spente e che devono invece essere alimentate.